THE OCEAN INSIDE – Review by Percorsi Musicali

The Ocean Inside - Max Corbacho

Quando Brian Eno ebbe l’intuizione dell’ambient music, le idee si indirizzarono dapprima verso gli spazi definiti (aeroporti, stazioni, etc.) ma furono probabilmente i musicisti ambient statunitensi ad espandere il concetto dello spazio da «ricoprire» facendolo passare da uno ampio ma comunque con dei confini, ad uno vastissimo che non poteva non riguardare gli elementi fondamentali della nostra natura. L’oceano era uno di quegli spazi che pur non avendo il requisito infinitesimo del cosmo, era comunque una delle forze più espanse della terra. Su quest’argomento la musica ha sempre avuto un riferimento, ma solo l’ambient music si prestava ad una descrizione sensitiva più verosimile della realtà sonora: al di là dello sfruttamento ricevuto come musica di riflessione e relax e dell’ambiguità suscitata dall’argomento, versioni «serie» che poggiassero sulla considerazione che si potesse simulare un’esplorazione delle profondità oceaniche non ne vennero fatte poi molte. Uno dei tentativi più riusciti che io ricordo di entrare nella imprescrutabilità delle acque profonde è stato quello profuso da Robert Carty in «Oceanic Space» che strutturò un’intero album dedicato all’argomento (con una lunga traccia «concreta» in cui si raccolgono suoni marini), ma è indubbio che moltissimi musicisti, anche fuori dal genere ambient, si siano avvicinati al tema (in forma non organizzata) conservando la loro prospettiva stilistica.
La recentissima pubblicazione di Max Corbacho rientra in quello sforzo musicale teso ad una completa compenetrazione dell’ambiente di viaggio sotto il mare che mira non solo ad una semplice simulazione sonora che faccia godere l’ascoltatore di momenti rilassati di benessere ricostruiti con un «drone» sintetico, ma che faccia rivivere un nuovo senso del viaggio sottomarino, che cerca di catturare l’animo «biologico» delle acque e dei suoi abissi, risultato ottenuto attraverso un lavoro musicale pazientoso tendente all’abbinamento delle due preposizioni «increspature dell’oceano»/»sfaccettature del suono». «The ocean inside» ci fa perdere la memoria del tempo come in un buon film di fantascienza, e attraverso le sue minime e calcolate variazioni, è un colossal sugli effetti pseudo-psicologici provocati da un attento ascolto delle turbe marine: correnti che suscitano idee, spazi di mare inperlustrati che evocano ricordi; sembra di assistere ad un documentario in cui chi prende la parola è il soggetto che si racconta, che sembra allontanare il desiderio di spiegare abusi e soprusi degli uomini e dichiara la propria funzione, ne riconosce la propria importanza e lancia messaggi di spiritualità. E’ incredibile come tutto questo possa essere fatto da un uomo con un semplice sintetizzatore.

Quando Brian Eno ebbe l’intuizione dell’ambient music, le idee si indirizzarono dapprima verso gli spazi definiti (aeroporti, stazioni, etc.) ma furono probabilmente i musicisti ambient statunitensi ad espandere il concetto dello spazio da «ricoprire» facendolo passare da uno ampio ma comunque con dei confini, ad uno vastissimo che non poteva non riguardare gli elementi fondamentali della nostra natura. L’oceano era uno di quegli spazi che pur non avendo il requisito infinitesimo del cosmo, era comunque una delle forze più espanse della terra. Su quest’argomento la musica ha sempre avuto un riferimento, ma solo l’ambient music si prestava ad una descrizione sensitiva più verosimile della realtà sonora: al di là dello sfruttamento ricevuto come musica di riflessione e relax e dell’ambiguità suscitata dall’argomento, versioni «serie» che poggiassero sulla considerazione che si potesse simulare un’esplorazione delle profondità oceaniche non ne vennero fatte poi molte. Uno dei tentativi più riusciti che io ricordo di entrare nella imprescrutabilità delle acque profonde è stato quello profuso da Robert Carty in «Oceanic Space» che strutturò un’intero album dedicato all’argomento (con una lunga traccia «concreta» in cui si raccolgono suoni marini), ma è indubbio che moltissimi musicisti, anche fuori dal genere ambient, si siano avvicinati al tema (in forma non organizzata) conservando la loro prospettiva stilistica. La recentissima pubblicazione di Max Corbacho rientra in quello sforzo musicale teso ad una completa compenetrazione dell’ambiente di viaggio sotto il mare che mira non solo ad una semplice simulazione sonora che faccia godere l’ascoltatore di momenti rilassati di benessere ricostruiti con un «drone» sintetico, ma che faccia rivivere un nuovo senso del viaggio sottomarino, che cerca di catturare l’animo «biologico» delle acque e dei suoi abissi, risultato ottenuto attraverso un lavoro musicale pazientoso tendente all’abbinamento delle due preposizioni «increspature dell’oceano»/»sfaccettature del suono». «The ocean inside» ci fa perdere la memoria del tempo come in un buon film di fantascienza, e attraverso le sue minime e calcolate variazioni, è un colossal sugli effetti pseudo-psicologici provocati da un attento ascolto delle turbe marine: correnti che suscitano idee, spazi di mare inperlustrati che evocano ricordi; sembra di assistere ad un documentario in cui chi prende la parola è il soggetto che si racconta, che sembra allontanare il desiderio di spiegare abusi e soprusi degli uomini e dichiara la propria funzione, ne riconosce la propria importanza e lancia messaggi di spiritualità. E’ incredibile come tutto questo possa essere fatto da un uomo con un semplice sintetizzatore.

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